Il mio primo incontro con Augusto Graziani avvenne in occasione dell’esame di ammissione al corso biennale di specializzazione in economia di Portici, nel dicembre 1968. Avevo appena compiuto 22 anni e mi ero laureato pochi giorni prima in Giurisprudenza a Napoli, con una tesi in Economia Politica. Graziani faceva parte insieme a Rossi-Doria e altri della commissione esaminatrice. Di economia io non sapevo praticamente nulla. Riuscii a cavarmela grazie all’arroganza degli ignoranti: scrissi un lunghissimo tema (sulla svalutazione della sterlina dell’anno prima, su cui oggi non saprei scrivere nulla!) che – forse letto dagli esaminatori con indulgenza verso un giovane incosciente – mi fece ammettere al colloquio e assegnare una delle borse di studio.
Il Centro di Portici era allora entrato in una fase piuttosto critica, per una molteplicità di fattori: Rossi-Doria, che ne era stato l’anima e il sostegno dalla fondazione, era stato eletto senatore per il PSI (allora parte dei governi di centro-sinistra) nelle elezioni politiche del maggio precedente, e – per quanto io ricordi – se si interessava di Portici se ne interessava abbastanza da lontano; vi era una forte incertezza sull’avvenire del Centro, i finanziamenti (ad esempio quello importante della Ford Foundation, che era molto legato a Rossi-Doria) minacciavano di venir meno, e tutto ciò si inseriva nell’atmosfera di generale disorientamento dell’accademia, dopo gli avvenimenti del 1968, da cui il Centro di Portici non era rimasto fuori. In effetti proprio all’inizio del nostro corso (gennaio 1969) ci fu un’occupazione da parte degli studenti della Facoltà di Agraria (il Centro era parte dell’Istituto di Economia Agraria della facoltà). Il mio primo ricordo preciso di Graziani è proprio in occasione dell’assemblea per l’occupazione: mi colpì che mentre molti discettavano su questioni piuttosto fumose e sostanzialmente irrilevanti, Graziani intervenne e tagliando corto orientò la discussione in senso pragmatico. Comunque l’occupazione durò circa un mese, contribuendo alla sensazione di crisi, in particolare per noi studenti: molti pensavano che aver perso un mese di lezioni poteva far naufragare il corso e molti io credo fra gli economisti agrari avrebbero visto di buon occhio la chiusura del corso e l’abbandono degli economisti “generali”, contrariamente al progetto originale di Rossi-Doria. Michele de Benedictis, nella veste di suo successore e direttore del Centro, cercava di conciliare le varie posizioni, spendendo moltissime energie e la sua carica umana di gentiluomo per tenere insieme il tutto.
A Portici si dava molta importanza all’analisi applicata, e Graziani era uno dei principali propugnatori di questa linea. Aveva da molto presto iniziato un suo cammino di distacco dall’ortodossia, avvicinandosi agli studi di economia quantitativa e di econometria, giudicando che si potesse portare l’economia nel «novero delle scienze empiriche», «taglia[ndo] i ponti con l’impostazione essenzialmente deduttivistica, propria della teoria dell’equilibrio generale».1 Questo approccio era rispecchiato nell’impostazione del Centro di Portici, dove, con Rossi-Doria assente, Graziani esercitava un’influenza spiccata sia sulla ricerca che sull’insegnamento. In effetti Graziani, divenuto cattedratico assai giovane (a meno di trenta anni), partecipante in posizione di rilievo ai dibattiti nazionali di politica economica (spesso con interventi suoi e del gruppo di Portici sulla rivista Nord e Sud), era la figura principale del Centro, dove – nonostante il suo impegno di insegnamento nella Facoltà di Economia di Napoli – spendeva molta parte del suo tempo e delle sue energie.
Il nostro corso non naufragò, anche se ebbe una navigazione non priva di sussulti. Nei primi mesi dell’insegnamento avemmo il privilegio che Graziani tenesse entrambi i primi due corsi, mentre era norma ci fossero due docenti diversi. Alla fine del primo, Graziani ci sorprese con l’offerta di tenere anche il secondo corso, offerta che noi studenti fummo lieti di accettare, nonostante i mugugni di una parte degli economisti.
Graziani è stato di fatto il mio primo insegnante di economia, con quei due corsi, e devo dire che – nonostante un rapporto non facilissimo tra lui e noi studenti – il suo ruolo fu per me molto importante: mi ero orientato verso lo studio dell’economia pensando sarebbe servito a capire i meccanismi “nascosti” della società in cui vivevamo, e l’insegnamento di Graziani fu fondamentale nel confermarmi che effettivamente i ragionamenti che uno iniziava a imparare potessero servire a questo. Non si trattava di applicare meccanicamente la teoria che ci si insegnava (e verso la quale già avevo una certa diffidenza), Graziani mostrava nella discussione costante e ravvicinata con gli studenti (eravamo sei o sette) che quello che si studiava poteva farci affrontare questioni economiche serie e rilevanti. Lo studio della teoria non era mero esercizio logico – o, almeno, non solo quello. I problemi da discutere anche nel corso erano ad esempio gli effetti di un grande investimento industriale come il nuovo centro siderurgico di Taranto, o i vantaggi e gli svantaggi dell’ingresso della Gran Bretagna nel Mercato Comune Europeo, o il problema delle ‘gabbie salariali’, allora all’ordine del giorno delle rivendicazioni dei sindacati nazionali, nella ritrovata unità della fine degli anni sessanta. Il primo compito a noi assegnato nel corso di “Teoria dei prezzi” di Graziani fu appunto una discussione dell’abolizione delle gabbie salariali. Tutto questo fu molto importante, confortandomi nella scelta che avevo fatto. Ciò devo ad Augusto Graziani. Non credo molti giovani che si siano avvicinati all’economia (e ancor meno che vi si avvicinino oggi!) abbiano avuto il privilegio di una iniziazione come questa.
Graziani fu di nuovo nostro insegnante all’inizio del secondo anno, in un corso sull’economia italiana. A quel punto di studenti eravamo rimasti due soli, Antonietta Campus ed io. Graziani ci propose di svolgere il corso in forma seminariale, e di organizzarci così: lui ci teneva una lezione che però era concepita per “lanciarci” in una ricerca sull’argomento trattato. Dopo qualche settimana ci rivedevamo e discutevamo di nuovo l’argomento. Questa formula mi sembra fosse assai indovinata, a me certamente servì molto anche per imparare i primi rudimenti della ricerca, come ad esempio raccogliere una bibliografia: per consultare testi difficilmente accessibili facemmo varie escursioni a Roma, presso la biblioteca della Banca d’Italia, dell’Istituto Gramsci ed altre. In tutto questo Graziani fu molto importante, ma anche Antonietta, che era di vari anni più anziana di me e veniva da una lunga esperienza di ricerca applicata per la sua tesi con Garegnani all’università di Sassari. Passammo dei mesi che ricordo come estremamente stimolanti, Graziani era disposto a lasciarci massima libertà di movimento (e di pensiero), non c’era problema se criticavamo le sue posizioni, ci incoraggiava nel nostro entusiasmo, solo era preoccupato che l’ansia di scavare più a fondo ci potesse far perdere di vista il risultato da raggiungere: penso vedesse un rischio di piétiner sur place. Insisteva sempre che a un certo punto riuscissimo a considerare conclusa la ricerca su un singolo argomento, e prendendoci un po’ in giro diceva: “potremmo considerare questo elaborato come ‘provvisoriamente definitivo’”, cercando di farci andare avanti: in effetti, non andammo mai oltre il dopoguerra e gli anni cinquanta! Ma io imparai molto.
Dopo quei mesi Antonietta lasciò Portici per la Banca d’Italia e praticamente, rimasto il solo studente, fui lasciato libero di occuparmi di quello che più mi interessava, e fui anche sciolto dai vincoli di frequenza alle lezioni (che invece al primo anno erano molto stretti: quattro o cinque ore di lezione al giorno per cinque giorni alla settimana, e alcuni pomeriggi di esercitazioni). Iniziai uno studio della teoria della distribuzione e del valore. Questo naturalmente mal si conciliava con l’approccio “applicato” di Portici. E in effetti i miei giorni a Portici volgevano al termine, ma non prima che Graziani mi facesse una allettante proposta: collaborare con lui alla pubblicazione di un’antologia di scritti sull’economia italiana, per la quale ci si poteva avvalere anche del lavoro svolto all’inizio dell’anno. Naturalmente fui molto contento di accettare, e questo portò alla pubblicazione della fortunata antologia L’economia italiana dal 1945 al 1970, uscita nell’ottobre del 1972 con una amplissima introduzione di Graziani, che naturalmente fu il principale determinante del successo del libro, che in pochi mesi vendette quasi 2000 copie. La casa editrice Il Mulino pagò già all’inizio del 1973 diritti d’autore che Graziani volle generosamente dividere a metà – per me si trattò dell’equivalente di più di un anno di borsa di studio!2
Dopo la pubblicazione dell’antologia i miei rapporti con Graziani per parecchio tempo furono scarsi. Io avevo iniziato un percorso che mi portava verso uno studio dell’economia classica, in particolare sulla linea Ricardo-Sraffa (con Marx nello sfondo), e questo mi allontanava da Graziani, che anche quando si avvicinò all’impostazione classica non condivise mai molto delle basi teoriche di Sraffa, cui anzi contrappose una linea che in funzione anti-ricardiana si riportava a Malthus – non solo e non tanto al Malthus della domanda effettiva, quanto al Malthus della misura del valore in lavoro comandato, contrapposta alla misura in lavoro incorporato di Ricardo e Marx. Anche, nella rivalutazione di Keynes come economista “eterodosso” Graziani privilegiava il Keynes del Trattato sulla Moneta rispetto a quello della Teoria Generale. Per parecchi anni tra noi ci furono pochi contatti, e da parte mia anche qualche pubblica manifestazione di dissenso: solo tardi capii che avrei fatto bene a evitare, allora invece la mia foga giovanile (avevo ancora meno di trenta anni) prevalse.
Il mio nuovo incontro – per così dire – con Graziani avvenne grazie a Massimo Pivetti, mio collega a Modena per molti anni, col quale avevo una lunga e fertile consuetudine di lavoro. Nel 1980 Graziani lo chiamò a Napoli. La facoltà di Modena iniziava a dare segni di stanchezza, e anch’io – dopo più di dieci anni – ero pronto a lasciare. Tornare a Napoli mi allettava molto, ma non sapevo quale sarebbe stato l’atteggiamento di Graziani. Con piacevole sorpresa scoprii che – lungi dall’essere ostile o risentito – Graziani era favorevole a un mio trasferimento a Napoli, per il quale anzi si spese molto in facoltà. Non credo che molti avrebbero mostrato lo stesso fair play. Così nel novembre 1986 ritornai alla mia Alma Mater.
Graziani dopo qualche anno fu chiamato a Roma. Nel breve periodo in cui fummo nello stesso dipartimento i nostri rapporti furono cordiali, anche se mai strettissimi. Comunque Graziani e sua moglie Angela furono sempre molto cortesi e ospitali: a volte in casa loro passavano importanti economisti stranieri – ricordo Malinvaud, Hahn, forse Arrow – e alcuni di noi erano invitati a cena per incontrare questi ospiti. E fu Graziani il primo a darmi la notizia, svegliandomi a prima mattina, che avevo vinto il concorso a cattedra.
Con la sua chiamata a Roma i nostri rapporti si diradarono di nuovo. Ma mi piace ricordare infine un piccolo episodio. Poco dopo il mio rientro a Napoli, i suoi più antichi allievi, che Graziani (a volte con fatica) aveva aiutato ad andare in cattedra, poco dopo aver raggiunto questo obiettivo si “ammutinarono”, lasciando il dipartimento e fondandone un altro. Io (insieme anche a Pivetti e altri) restai nel “vecchio” dipartimento, così mostrando a Graziani una lealtà che mi piace pensare potesse, in questo frangente (sia pure in piccola parte) compensare le mancanze di altri – e forse anche qualche mio passato peccadillo.
2 Sia consentito un rinvio al mio scritto “L’antologia di Graziani sull’economia italiana” (in Atti dei Convegni Lincei 216, L’opera scientifica di Augusto Graziani, Bardi Edizioni, Roma 2016) dove si può trovare anche una discussione di alcuni aspetti del pensiero economico di Graziani e della sua evoluzione.