Le analisi monetarie di Augusto Graziani e la critica della scuola neoclassica

1.  Augusto Graziani ha dato contributi di grande rilievo a diversi aspetti della vita accademica. S’impegnava nei Dipartimenti con vigore e imparzialità. Difendeva il bisogno dei giovani di avvantaggiare la formazione alla ricerca. Organizzava innumerevoli riunioni nelle quali difendeva con decisione le sue idee. Un giovane ricercatore con argomenti diversi da quelli che egli proponeva aveva l’opportunità di affrontare un’esperienza formativa forse difficile ma certamente costruttiva.

Tra i temi di sua competenza, quelli concernenti il ruolo della moneta furono tra i più dibattuti. Le analisi sul “circuito monetario” richiamarono l’attenzione della letteratura internazionale e sono tuttora al centro di discussioni che descrivono Graziani come un innovatore e un caposcuola, un riconoscimento che rileva l’originalità e la complessa articolazione del suo pensiero e della sua personalità.

Il punto di partenza è l’osservazione che l’attività imprenditoriale si realizza anticipando mezzi di pagamento che il sistema bancario mette a disposizione. I crediti concessi dalle banche non dipendono necessariamente dai depositi che hanno già raccolto. Le banche possono concedere nuovi prestiti riducendo le riserve di base monetaria, favorendo così un aumento autonomo della domanda effettiva che modifica i livelli di produzione e occupazione e la distribuzione del reddito.

 

2. Il ruolo della moneta e del credito nell’attività economica è sempre stato un tema controverso nella letteratura. Henry Thornton, l’economista britannico che maggiormente incise sulla redazione del Bullion Report del 1810, riteneva che l’emissione monetaria potesse modificare in modo permanente il livello di produzione (oggi si direbbe “potesse modificare il prodotto potenziale”). Ricardo e James Mill negavano quest’affermazione adottando la Legge di Say e sostenendo che i fattori monetari sono ininfluenti quando si esaminano le tendenze di fondo nel comportamento dell’economia. La controversia tra queste posizioni, nota come il dibattito sulla “neutralità della moneta”, ha attraversato tutta la storia del pensiero economico. La Nobel Lecture di Lucas mostra che i problemi connessi a tale dibattito hanno guidato le ricerche di quest’autore e la nascita della Nuova Macroeconomia Neoclassica negli anni Settanta. Negli anni successivi, altri economisti, d’accordo con le posizioni di Lucas sulla neutralità della moneta, hanno generato la Nuova Macroeconomia Keynesiana e il Nuovo Consenso in Macroeconomia.

Il punto in discussione in tutta questa letteratura non è la neutralità della moneta nelle analisi delle fluttuazioni cicliche dell’economia. Ricardo, James Mill e gli economisti che, dopo di loro, hanno esaminato i problemi monetari – incluso Lucas e gli economisti delle Nuove Macroeconomie – sono d’accordo che le variazioni della moneta e del credito modificano i livelli delle variabili economiche nelle diverse fasi del ciclo. Il punto in discussione riguarda la neutralità della moneta nelle analisi delle tendenze di fondo. La letteratura si riferisce a questo tema con l’espressione “neutralità di lungo periodo della moneta”, che indica l’incapacità dell’emissione monetaria e del credito di modificare il “prodotto potenziale” e il “saggio naturale d’interesse”.

Queste discussioni toccano un punto chiave della disciplina. In che modo la moneta deve essere integrata nei fondamenti teorici della scienza economica, vale a dire nelle teorie del valore, della distribuzione e del livello di produzione?

Dopo la crisi del 1929, il lavoro intellettuale di Keynes, sostenuto dai giovani colleghi del Cambridge Circus, si era concentrato su questo tema. La “teoria monetaria della produzione”, che egli aveva iniziato a costruire nella seconda metà del 1932 in opposizione al punto di vista allora dominante che egli stesso aveva proposto nel Trattato sulla Moneta del 1930, rinnegava la “neutralità di lungo periodo della moneta” e la Legge di Say. Nella Teoria Generale dell’Occupazione, Interesse e Moneta, Keynes sostenne che i fattori monetari giocano un ruolo cruciale nelle variazioni permanenti dei livelli di produzione, occupazione e delle variabili distributive, incluso il saggio d’interesse.

Keynes era consapevole che il suo progetto di ricerca riguardava l’integrazione della moneta nei fondamenti teorici della disciplina e pensava che il suo libro rappresentasse una “rivoluzione” che doveva indurre la professione a interpretare gli eventi economici in modo nuovo (si veda la lettera del 1° gennaio 1935 a George Bernard Shaw e la trasmissione radiofonica “Poverty in Plenty” pubblicata in The Listener del 21 novembre 1934). I contenuti di questa “rivoluzione” lasciavano tuttavia spazio a interpretazioni discordi e, anche fra chi condivideva le posizioni di Keynes, furono avanzate proposte diverse su come valutarli.

Sraffa, Harrod e Kaldor vedevano nel lavoro di Keynes una rottura con le teorie dominanti. Analizzando la struttura dei tassi d’interesse, Kaldor (1939, pp. 39-41), invece di riferirsi a un concetto astratto e non direttamente osservabile come il saggio naturale d’interesse, prospettò che le decisioni delle autorità monetarie dipendono dalle loro interpretazioni di quali sono i fattori reali e monetari che incidono sul comportamento dei mercati finanziari e dell’economia in un certo periodo storico. Inoltre aggiunse – come aveva già fatto Keynes – che tali decisioni sono più efficaci quando riescono a plasmare le aspettative degli operatori. Kaldor (1939, p. 37) concluse che, anche se i cambiamenti nel corso degli eventi possono ostacolare l’attività delle autorità monetarie aumentando il grado d’incertezza prevalente nei mercati, l’esperienza storica mostrava che esse avevano avuto successo nello stabilizzare durevolmente i mercati.

Joan Robinson vide invece nel lavoro di Keynes una rottura con la metodologia dominante. Per Robinson (1936, p. 74; 1951, pp. 257-258), Keynes rilevava che i processi di aggiustamento sono lenti e non riescono a produrre gli effetti che la letteratura indica perché i frequenti cambiamenti nel corso degli eventi modificano le tendenze mantenendo viva l’incertezza sugli andamenti futuri dei mercati. Identificando le sue posizioni con quelle di Shackle e Kalecki, Joan Robinson (1974, p. 3) chiarì che, fino alla pubblicazione della Teoria Generale, ebbe difficoltà a indurre Keynes a intuire che questo era il punto centrale della sua “rivoluzione”. Robinson concluse sostenendo che, quando pubblicò una sintesi della Teoria Generale dopo la sua pubblicazione, Keynes fortunatamente mise a fuoco che la rottura consisteva nel passare dal metodo delle scelte razionali a quello delle decisioni basate sul guess-work e le convenzioni.

D’accordo con Joan Robinson, Shackle (1967, p. 207) evidenziò che gli studi economici devono svilupparsi con analisi che i due economisti chiamarono “di breve periodo” senza preoccuparsi delle tendenze di fondo. Inoltre, entrambi affermarono che, concentrandosi sui problemi del disequilibrio, il Trattato sulla Moneta propone una descrizione più convincente del ruolo dell’incertezza che la Teoria Generale. (si veda Shackle, 1967, pp. 208-215 e 240; J.V. Robinson, 1951, pp.  254-255).

 

3. Queste considerazioni di storia del pensiero possono aiutare a chiarire alcuni aspetti del pensiero di Graziani e a evidenziare i temi che dovrebbero essere ulteriormente approfonditi esaminando i suoi scritti.

Nelle analisi sul “circuito monetario” le scelte delle banche di concedere prestiti alle imprese riducendo le riserve di base monetaria violano la condizione di equilibrio tra decisioni di risparmio e d’investimento. Per descrivere i meccanismi che queste scelte mettono in moto, Graziani esaminò processi di disequilibrio e sequenze temporali che, a differenza di quelle neoclassiche, non spingono l’economia verso posizioni di equilibrio di pieno impiego. Inoltre, il suo interesse per gli scritti di Schumpeter e di chi predilige lo studio dei processi di disequilibrio suggerisce che le sue analisi – come quelle di Joan Robinson e Shackle – assumono che l’economia non tende verso posizioni di equilibrio, siano esse caratterizzate dalla presenza di pieno impiego o di disoccupazione.

Un secondo elemento che avvicina le elaborazioni di Graziani a quelle di Joan Robinson e Shackle è il maggiore interesse per i contenuti analitici del Trattato sulla Moneta che per quelli della Teoria Generale. L’attenzione per il Trattato, un testo che appartiene alla tradizione neoclassica e che – come lo stesso Keynes chiarì – accetta la neutralità di lungo periodo della moneta, la dicotomia tra il dipartimento analitico reale e quello monetario della teoria economica, la Legge di Say e il ruolo guida del saggio naturale d’interesse per la conduzione della politica monetaria, segnala un’inclinazione a studiare le opere del passato per trovare ispirazione sui problemi che l’attualità deve affrontare. L’approccio, che consente di proporre “letture” diverse della letteratura precedente, non necessariamente accurate dal punto di vista della ricostruzione storica, può favorire lo sviluppo delle conoscenze se usato da autori esperti e competenti come Graziani. Resta comunque la necessità di chiarire i limiti sul piano interpretativo delle “letture” proposte. Al riguardo, non appare convincente l’affermazione di Marglin (2021, p. 3), uno dei più importanti critici della scuola neoclassica, che le ricostruzioni accurate della storia del pensiero sono un lavoro fine a se stesso e inutile, come la “ricerca del Sacro Graal”.

 

4. Le riflessioni sulla storia del pensiero possono anche contribuire a valutare come Graziani considerasse il lavoro di Sraffa, un altro caposcuola dell’economia critica.

Il disinteresse per lo studio delle tendenze e per il metodo dell’equilibrio suggerisce un primo motivo del distacco che Graziani mostrava per le analisi critiche di Sraffa. Si può tuttavia acquisire maggiore consapevolezza su questo punto esaminando come i due autori concepivano la relazione tra teoria, storia e politica. Gli sviluppi recenti della letteratura sugli scritti di Sraffa sollecitano un esame analogo su quelli di Graziani.

Le analisi critiche di Sraffa muovevano dal presupposto che il realismo delle ipotesi, non quello delle conclusioni, è il banco di prova delle teorie. Esse cercavano di identificare le ipotesi che rendono una teoria coerente per valutare se, dal punto di vista del realismo, esse fossero più accettabili che quelle richieste dalle teorie alternative.

La letteratura recente su questi temi ha esaminato come il lavoro di Sraffa si legasse a quello di Keynes, proponendo alcune novità. Un’interpretazione prospettata nella seconda metà del secolo XX affermava che questi autori erano tanto distanti da dare luogo a quello che Skidelsky (1986) definì “un caso di non-comunicazione”. Pasinetti (1979, p. 738) aveva già criticato l’opinione diffusa ma errata che gli scritti di Sraffa contenevano solo ‘esercizi astratti di teoria pura’ distanti dalla realtà ed elaborati senza aver interesse per gli aspetti storici e politico-normativi. Negli anni Ottanta le analisi degli scritti monetari e politici pubblicati da Sraffa negli anni giovanili confermarono le valutazioni di Pasinetti. Poi, nella seconda metà degli anni Novanta, l’apertura degli Sraffa Papers, l’archivio depositato nella Wren Library del Trinity College di Cambridge, ha consentito di vagliare ulteriormente le opere di quest’autore.

Sono emersi documenti che, dalla seconda metà della prima decade del nuovo millennio, hanno portato a riconoscere che il progetto di ricerca di Sraffa aveva come obiettivo la costruzione di una teoria economica in conformità a ipotesi concernenti il comportamento di grandezze osservabili, tangibili e misurabili (si veda Kurz e Salvadori, 2005). Si voleva così ridurre la probabilità che assunzioni che sfuggono a verifiche “oggettive” potessero introdurre elementi ideologici nella disciplina e dominarla. La nuova interpretazione ha anche evidenziato che Sraffa e Keynes avevano una comune sensibilità su questi temi e ha chiarito che i due svilupparono una stretta collaborazione che andava dall’esame dei fondamenti metodologici e teorici della disciplina ad aspetti specifici dell’analisi monetaria (si veda Panico, 2021). Nonostante le differenze caratteriali, essi condivisero obiettivi di ricerca e l’elaborazione di argomenti analitici in un clima di rispetto e amicizia. Non si trattò quindi di “un caso di non-comunicazione”.

Lo studio degli Sraffa Papers ha permesso di stabilire che Keynes e Sraffa condividevano i contenuti della tradizione scientifica che Marshall aveva imposto a Cambridge. Questi si era contrapposto a Cunningham in un dibattito simile al “Methodenstreit” che era in corso contemporaneamente nell’Europa continentale. Marshall (1985) riteneva che la disciplina economica avesse bisogno di principi generali, concepiti in termini di teorie astratte, vale a dire costruite introducendo solo alcuni degli elementi che operano nella realtà, la cui applicazione doveva tener conto delle circostanze storiche prevalenti. Per Cunningham, invece, la dimensione politica e quella storica dovevano dominare nella costruzione delle teorie. Seguendo Marshall, Keynes e Sraffa riconobbero che, per la loro natura astratta, le teorie vanno giudicate in base alla coerenza logica e che la mancata corrispondenza tra i loro risultati e gli eventi storici prevalenti non è sufficiente a indurre la professione ad abbandonare i fondamenti teorici dominanti. Il realismo delle ipotesi, non quello delle conclusioni, rappresenta per loro il banco di prova delle teorie.

Le novità emerse sul lavoro di Sraffa e sul rapporto con quello di Keynes sollecitano una nuova lettura degli scritti di Graziani per vagliare come concepiva la relazione tra teoria, storia e politica. Il ruolo eminente che questi ha avuto nell’elaborazione delle teorie critiche rende tale approfondimento auspicabile.

Riferimenti bibliografici

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